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L’ultimo percorso

Gene Cruz Ruiz


(www.accademiamichelangelo.com/ Gene Cruz Ruiz).- Prima del 31 agosto, giorno nel quale finì nel Museo Amparo l’esposizione Trayectorias dell’artista di Zacatecas, Manuel Felguérez (1928 – 2020), fu possibile visitare un’altra volta quella mostra itinerante che onorò lo spazio poblano dalla metà di marzo 2021...


Così, già nell’edificio, e lasciando dietro le sue provocanti porte di vetro, il visitante si trasforma immediatamente in un bambino stupito dalla prima opera. Lì, un lungo serpente inerte, le cui viscere sono di ferro e di cemento, domina –in dialogo con un’entità fluttuante –, il diafano atrio dell’Amparo. Vantandosi della sua monocromia, esibisce irregolari pause pesanti che sono connesse tra di loro, via vene nere in perfetta tensione, le quali riescono ad equilibrare i blocchi di sassi, tramite la produzione di vuoti. L’insospettato rettile che ha come nome Muro de las formas mecánicas (1963), divora tutto ciò che si osserva attraverso di lui, senza mai sacrificare la sua apparente leggerezza. Appendendo il suo scheletro dalla terra che l’aspetta, il serpente che il presunto ragazzo individua, l’invita a rivolgere lo sguardo verso i cieli della sala di ricevimento, dove un’altra grande struttura, una Libélula (2019), approffita lo spazio aereo di questa anticamera, il quale è stato poche volte conquistato dall’arte.


Alla fine di alcuni minuti di contemplazione, la curiosità esige al bambino di continuare il suo viaggio. Di questa maniera, oltrepassando il botteghino, affronta una galleria situata al piano terra. Da qui emergono suoni peculiari che lo chiamano con l’obbiettivo di farlo attraversare la soglia; quando lo fa, il bambino arriva alla sua pubertà per incontrare davante a sé, un mostro meccanico di grandi misure controllando il centro della stanza. La máquina del deseo (1973) non è completamente massiccia, ma le luci que la colpiscono, riescono a toccare quasi tutto il pavimento a doghe. Allo stesso modo del serpente, lei interagisce con immensi vuoti; però, qui i tocchi di colore aggiungono dinamismo alla composizione, senza omettere il suo coronamento fatto dalle decine di antenne che nascono dal suo centro, mentre quasi sfiorano la lampada di soffitto della stanza.


All’improvviso, l’audio ricupera l’attenzione del ragazzo, mostrandogli la ripetizione del frammento di un video, dove, curiosamente, appare lo stesso gigante metallico.



L’adolescente trova qualcosa di spiritoso nel film La montaña sagrada dell’artista di Cile, Alejandro Jodorowsky: si rende conto che il mostro di metallo dietro di lui è realmente uno dei personaggi principali di quella produzione cinematografica del ’73. Infatti, una scena spicca tra le altre: due uomini e una donna armati, con un fallo di plastica, penetrano La maquina del deseo varie volte. Nonostante, soltanto la donna riesce, probabilmente per la sua nudità, ad eccitare l’apparecchio e a propiziare tanto i suoi gemiti quanto le bollicine che emanano da lui. Immediatamente, dal fallo occupato dalla donna sorge una sostanza che sul pavimento suscita l’apparizione, una scena più tardi, di una versione miniatura del mostro metallico, il quale è incredibilmente comico per il suo pianto di bebè. L’inusuale atto finisce con i gesti di vittoria delle tre persone che sono lì e con la macchina sollevando il suo cucciolo con le sue braccia.


L’opera è polemica e quello condensa un grande successo per Felguérez e Jodorowsky, perché quasi cinquanta anni doppo la sua comparsa nella scena artistica, continua provocando discussioni e domande di indole creativa, politica e di agenzia (cioè, di capacità per agire nel mondo): perché soltanto la donna è nuda? Quale motivo, a parte dell’eccitazione di un oggetto, esiste per spogliarla dell’abbigliamento? Per caso questa situazione la fa sacrificare la sua capacità di prendere decisioni, o la fa perdere la sua identità, quando –perfino nuda– lei è più accolta degli uomini che l’accompagnano? Oppure, non sarebbe stato tutto quello uno svago, un gioco?


Il ragazzo si chiede tutto, ma considera che se Felguérez e Jodorowsky non avessero preso dei rischi, le loro singolari opere (La máquina del deseo e La montaña secreta, rispettivamente) non sarebbero mai esistite. Tutte e due sono testimonianza di una collaborazione ambiziosa un po’ allontanata dalla critica femminista; però, sostenitrice della sperimentazione, dell’intrattenimento e della trasgressione dei limiti imposti dalla morale o dalla società di quell’epoca, come l’indicano la sceneggiatura curatoriale da Pilar García e la sua intervista con l’artista messicano.



Ancora con la sorveglianza della macchina alle spalle, il visitante che matura con ognuna delle opere nel suo cammino, scopre le origini e l’evoluzione plastica di Felguérez che, dai primi tempi della sua carriera, assunse un linguaggio proprio. Gli piacque la sperimentazione con temi, materiali e formati, cercando di creare un amalgama tra scienza,

tecnologia ed arte che non fosse svincolata dalla realtà, e che fosse pure materializzata con la mescolanza di manifestazioni artistiche..


In diverse tele esposte, come in Inicio de un viaje del 1959, si distinguono tratti densi di pittura, probabilmente applicati con una spatola, i quali concentrano normalmente il peso dell’opera nel centro del quadro, permettendo all’arte caratterizzato dalla planimetria, di generare volume, grazie alla superposizione di carichi abbastanza fitti di colori a olio.


Allo stesso tempo, molto vicino, quel ragazzo trova una serie di dettagliati studi, i quali –benché siano schizzi–, arrricchiscono oltremodo l’apprezzamento delle opere giustapposte; poiché rivelano la razionalizzazione e l’accuratezza millimetrica che i risultati in acrilico nascondono, mentre esibiscono delle sperimentazioni con la proporzionalità. Queste composizioni erano state generate da La máquina estética, una forma di intelligenza artificiale sviluppata negli anni settanta (con l’aiuto dell’ingegnere sistemista Mayer Sasson), che imparò il linguaggio plastico di Felguérez, per dare –come prodotto– ideogrammi che dopo l’artista utilizava nelle sue creazioni pittoriche o scultoree.


Senza essere abbastanza, la parete carica anche delle opere come Fugas de cílindros di c. 1976, la cui evocazione delle strutture industrali è evidente non soltanto grazie alla sua forma, bensì, per le tonalità di cui si gode. Da una parte, profitta dal riflesso metallico; dall’altra parte, sfoggia la complementarità tra rosso e verde tanto sui tubi, quanto sul bordo della produzione, esacerbando così la sua palpabile qualità tridimensionale, e appropriandosi di una capacità ludica, nel senso di sinestesia. Ciò significa che l’opera può essere toccata con gli occhi; provocando –in poche parole– un incrocio profondamente attrattivo e divertente tra l’organo (gli occhi) e la percezione che gli corrisponde (l’immagine, non la consistenza).



Come un artista della dopoguerra, affascinato dalle macchine dalla sua infanzia, Felguérez nutriva le sue opere con i materiali che aveva a portata di mano, essendo meno fattibile avere risorse costose che rottami o, come lui li chiamava, “ferro vecchio”. Di questo modo, l’essenza dell’arte povera –movimento artistico degli anni sessanta– si faceva viva nel suo lavoro.


Dopo di una trance visiva che non vuole concludere, il ragazzo decide di salutare il gigante, per salire i gradini e scoprire l’ultima stanza delle Trayectorias di Felguérez. Lì, i telai oltrepassano qualsiasi aspettativa, sia di misura o di contenuto. Se qualcuno ancora

credeva che il passo del tempo fosse inalienabile al progresso; sicuramente teneva in mente le opere dell’artista messicano, poiché è evidente: salvò il meglio per la fine.


Il ragazzo, già diventato adulto, osserva davanti a sé un murale con trasparenze ambre che communica i due estremi della sala. Allo stesso tempo, scopre a sinistra una maestosa interiorizzazione del dripping. Felguérez si appropriò della tecnica diffusa da Jackson Pollock (metà del ventesimo secolo), sostanzialmente producendo aree con pittura gocciolante, le quali riempì con colori differenti da quelli che predominassero sul fondo di ogni zona. Inoltre, le enormi teli non sono esclusivamente pitture; visto che abbracciano interventi scultorei che sono installati e integrati meticolosamente, per imitare il disegno su cui si accomodano.


Finalmente, nuove scultture –secondo gli occhi del visitante– occupano il centro dello spazio, offrendogli due o tre produzioni su ognuna delle tavole disposte. Quando si osservano da diverse posizioni, però, rivelano più di tre possibilità, grazie alla grande quantità di connessioni tra tutte le superfici, tramite le loro tonalità e consistenze. Così, il loro impatto soltanto dipende del tempo che abbia colui che voglia apprezzare le opere.

Abbandonando l’ultima delle stanze, il camminatore se ne va con nostalgia repressa. A passo a passo, dice addio ad una galleria, ad un’opera, perché lui sa che Felguérez è morto, e la sua mostra sarebbe chiusa con la partenza di agosto. Perfino così, l’esperienza estetica arrivò per rimanere, brindandogli un profondo respiro, quell’aria indispensabile per continuare, adesso da solo, con la sua traiettoria.





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